Nella tarda serata del 10 dicembre, la multinazionale ArcelorMittal e Invitalia (a partecipazione statale e di cui amministratore delegato è Domenico Arcuri) sono finalmente riusciti a firmare un accordo che prevede, tra le altre cose, l’ingresso dello Stato Italiano nell’amministrazione dello stabilimento di Taranto. Un ingresso, per il momento, con il 50% delle quote come vi avevamo già raccontato e spiegato in un articolo precedente la firma.
Ma facciamo un passo alla volta e, prima di capire quali siano le motivazioni sottostanti e soprattutto le reazioni di chi sperava che l’accordo saltasse o che almeno la finalità fosse diversa, bisogna ripercorrere le tappe fondamentali del trascorso dello stabilimento e del ruolo dello Stato.
Il 9 luglio 1960 viene posta la prima pietra dell’Italsider, il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, e la costruzione – a carico dello Stato – però si pone immediatamente a discapito della norma che, già dal 1934, imponeva la costruzione di stabilimenti industriali al di fuori delle aree abitate. Una volta entrato in funzione, nel giro di pochi anni, la produzione di acciaio grezzo arriva addirittura a 10,5 milioni di tonnellate annue. Diventa necessario espandersi, e a pagarne le conseguenze saranno la città di Taranto e la zona portuale che subirà profondi stravolgimenti urbanistici.
A metà anni ’70 gli occupati sono circa 25.000, mentre nell’indotto gli impiegati sono circa 14.500. Grandi numeri, tanta produzione e possibilità economiche e lavorative in grado di far diventare Italsider lo stabilimento a più alta capacità produttiva d’Italia, e aiutare la ripresa economica e occupazionale nel tarantino.
A metà anni ’80 il settore siderurgico entra in crisi: nel 1987 lo stabilimento passa al gruppo Ilva e arrivano i primi tagli occupazionali (circa il 30%). Successivamente, la Comunità Europea chiede la completa privatizzazione e, così, nel 1995 la famiglia Riva acquista l’Ilva. Dopo una ristrutturazione interna il personale viene ridotto a sole 12.000 unità e vengono tralasciati gli investimenti contro l’inquinamento.
Dopodiché, un altro stabilimento Ilva – a Cornigliano, Genova – viene chiuso dopo alcune inchieste della Magistratura per il forte inquinamento e l’impatto scaturito sulla popolazione ligure. Tutta la produzione passa a Taranto e nel 2006 si arriva a produrre fino a 14 milioni di tonnellate annue.
Nel frattempo, però, esce allo scoperto lo scandalo ambientale grazie all’operato di cittadini, associazioni e comitati che si mobilitano in difesa del diritto alla salute. Anche la Magistratura si attiva con le prime inchieste, nel 2012 inizia il processo “Ambiente Svenduto” ma comincia anche il periodo dei cosiddetti “decreti Salva-Ilva” (ad oggi, sono 12) con lo Stato che nel 2013 commissaria l’Ilva. La famiglia Riva rimane proprietaria fino al 2015 poi, fino al 2018, si può considerare lo stabilimento come controllato dallo Stato.
Proprio nel settembre 2018, il Governo, dopo una lunga trattativa dà in gestione lo stabilimento, comunque in Amministrazione Staordinaria, alla Am Ivestco Italy srl, detenuta dal colosso ArcelorMittal, stipulando un contratto d’affitto e ricevendo “la benedizione” dei sindacati perché prevedeva la piena occupazione per 10.700 operai ma, in particolare, anche la promessa di forti investimenti per mettere a norma gli impianti di produzione.
Anche questo accordo fu accompagnato dalla politica con esternazioni che risulteranno poco veritiere, soprattutto sull’abbassamento dell’inquinamento, sulle prescrizioni ambientali e sull’immunità penale e amministrativa tanto richiesta dai nuovi affittuari.
Ci interessano, ora, gli ultimi passaggi fondamentali prima dell’accordo del dicembre 2020, perché di fatto si sta giocando un partita politica sulla pelle dei cittadini, come più volte abbiamo scritto nei nostri approfondimenti, da rileggere a questo link.
Dopo poco più di un anno ArcelorMittal manifesta la volontà di recedere dal contratto di affitto con delle motivazioni che riteneva ostative per il prosieguo della sua attività: oltre ad esigere lo scudo penale riguardante il piano ambientale, temeva il rischio del sequestro e dello spegnimento dell’altoforno 2 e sottolineava il clima ostile nei suoi confronti da parte delle istituzioni cittadine e della comunità.
In fretta e furia si cerca un nuovo accordo per riappacificare gli animi e fare di tutto affinché ArcelorMittal rimanga alla guida dell’Ilva: gli interessi in gioco sono troppi. Si sigla così un nuovo contratto tra le parti il 4 marzo 2020 i cui punti fondamentali riguardano da una parte l’ingresso di investitori pubblici e privati nel capitale sociale dell’azienda e, dall’altra, il versamento da parte di ArcelorMittal di una caparra penitenziale di 500 milioni di euro qualora opti comunque per lasciare lo stabilimento di Taranto entro la fine dell’anno. Questa volta, però, anche i sindacati non si trovano in accordo perché ci sono poche certezze sul piano occupazionale.
Arriva la pandemia, l’emergenza sanitaria e la crisi economica certamente non aiutano le sorti dello stabilimento e il 9 giugno il governo boccia il piano industriale “Post Covid Business Plan 2020-2025” presentato da ArcelorMittal: prevedeva circa 5000 esuberi, la dilazione delle tempistiche per i piani di investimento (soprattutto in campo ambientale) e la richiesta allo Stato di 1,5 miliardi di euro (di cui 200 milioni a fondo perduto).
Forse, è proprio da questa richiesta, che il Governo decide per iniziare una mediazione con il colosso dell’acciaio per fare il suo ingresso nell’amministrazione, ripercorrendo la strada di altri governi e altri ministri succedutisi nel tempo che hanno sempre considerato la produzione di acciaio e l’Ilva come “stabilimento di interesse strategico nazionale”, emanando altri decreti “salva-Ilva”, al punto che, una settimana dopo che la Magistratura tarantina disponeva, nel novembre 2012, il sequestro dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali, il sequestro dei prodotti finiti e semilavorati, il Governo Monti con il decreto-legge n. 207 del 3 dicembre 2012, garantisce la continuità produttiva e la commercializzazione dei prodotti, anche quelli sequestrati. Con le medesime ragioni, il decreto-legge n.1 del 5 gennaio 2015 assicura l’immunità penale ai commissari, escludendoli da eventuali colpe se non fosse stato rispettato il Piano Ambientale.
Rimane ancora oggi, quindi, una produzione “strategica” anche se ArcelorMittal è stata insolvente rispetto ad alcune rate dell’affitto scatenando una battaglia legale.
Inoltre, come più volte scritto anche da Marescotti, presidente di Peacelink, e riportato anche da Cittadini Reattivi (in questo approfondimento), lo stabilimento è in perdita di 100 milioni di euro al mese e il mercato dell’acciaio è in forte crisi, sia a causa della pandemia sia perché la Cina detiene una larga fetta del mercato internazionale.

I punti salienti dell’accordo Invitalia – ArcelorMittal
Invitalia siglando l’accordo con ArcelorMittal si impegna ad entrare nell’amministrazione versando un aumento di capitale di 400 milioni di euro in favore di AMInvestCo Italy (società a capo di ArcelorMittal e affittuaria di Ilva in Amministrazione Straordinaria) entro il 31 gennaio 2021, controllando così il 50% per poi, entro maggio 2022, diventare azionista di maggioranza con il 60% sottoscrivendo fino a 680 milioni di euro, mentre ArcelorMittal ne verserà 70.
I Ministeri coinvolti nella trattativa (Mef -Ministero dell’economia e delle finanze- e il Mise -Ministero dello Sviluppo Economico) assicurano, a fine ricapitalizzazione, la piena occupazione di 10.700 lavoratori.
Non tutti, però, ne sono convinti: ad esempio, Aldo Schiedi, lavoratore in capo all’Ilva in amministrazione straordinaria, intervistato da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 18 dicembre 2020, afferma che: “nell’attuale accordo, in effetti, non si parla di noi. L’accordo del 2018 è ormai carta straccia. I 1600 lavoratori si aggiungono ai prossimi 3mila per un totale di ben 4600 lavoratori e tutti con la promessa di reintegro nel 2025”. Aggiunge inoltre che, nel marasma politico tarantino, l’unico a intervenire è stato il sottosegretario di Stato Mario Turco, affermando che: “il Governo si è assunto una bella responsabilità. Se dovesse questo accordo non dimostrarsi realizzabile nei tempi previsti sarebbe bene dare fine all’accanimento terapeutico”.
E’ inoltre prevista: “la creazione di una nuova linea di produzione esterna al perimetro aziendale (DRI) e di un forno elettrico interno allo stabilimento che a regime potrà realizzare 2,6 milioni di tonnellate annue di prodotto.Circa un terzo della produzione di acciaio avverrà con emissioni ridotte, grazie all’utilizzo del forno elettrico e di una tecnologia all’avanguardia, il cosiddetto “preridotto”, in coerenza con le linee guida del Next Generation EU.La riduzione dell’inquinamento realizzabile con questa tecnologia è infatti del 93% a regime per l’ossido di zolfo, del 90% per la diossina, del 78% per le polveri sottili e per la CO2.”
ArcelorMittal comunica inoltre che “la governance di AmInvest Co si baserebbe sul principio del controllo congiunto a partire dal primo investimento di Invitalia”. Si formerà, quindi, una nuova società, con tre esponenti ciascuno del cda, il pubblico esprimerà il presidente, il privato l’ad.
Infine, la produzione di acciaio entro il 2025 sarà di circa 8 milioni di tonnellate annue.
Rimane, però, un punto cruciale nell’accordo che ArcelorMittal tiene a sottolineare anche nel comunicato stampa: “le condizioni sospensive al closing comprendono: la modifica del piano ambientale esistente per tenere conto delle modifiche del nuovo piano industriale; la revoca di tutti i sequestri penali riguardanti lo stabilimento di Taranto; e l’assenza di misure restrittive – nell’ambito dei procedimento penali in cui Ilva è imputata – nei confronti di AM InvestCo.”
Le reazioni: dalle istituzioni ai cittadini
Il presidente della Regione Puglia Emiliano, in pieno dissenso, afferma che: “appare evidente che l’accordo è avvenuto nel solco di un piano industriale che, confermando o addirittura rilanciando la tecnologia tradizionale che ha caratterizzato la fabbrica di Taranto dalla sua costituzione ad oggi, appare anacronistico e assolutamente fuori dal perimetro di decarbonizzazione che è stato per anni oggetto di discussione ed approfondimento. La sola idea che il raggiungimento di una produzione industriale vicina alle 6 milioni di tonnellate di acciaio, passi attraverso la ricostruzione degli altiforni, ed in particolare di Afo 5, genera sgomento”.
Il sindaco di Taranto Melucci, dal canto suo, considera l’accordo “carta straccia” e che “noi dobbiamo occuparci della salute dei tarantini”.
Invece, diverse associazioni e comitati ambientalisti tarantini (tra cui Rete Legalità per il Clima, Comitato Cittadini Lavoratori Liberi e Pensanti, associazione Progentes, associazione Genitori Tarantini ETS, associazione Lovely Taranto, Comitato Donne e Futuro per Taranto libera, comitato Quartiere Tamburi, Fridays for Future Taranto, Plasticaqquà Taranto e alla redazione di emergenzaclimatica.it) inviano, insieme a ISDE (Associazione Medici per l’Ambiente) una vera e propria diffida nei confronti del Governo, della Regione Puglia, del Comune di Taranto e di Invitalia spa, chiedendo che “lo Stato tramite Invitalia coniughi l’ingresso nel capitale del nuovo soggetto, che assieme ad ArcelorMittal gestirà l’ex Ilva, al dovere di informare sulle emissioni climalteranti della nuova produzione che si andrà ad avviare”. A questo link potete legge l’intero comunicato riguardante la diffida.
Chiudiamo questa ennesima diatriba su ambiente, salute ed economia, con le parole incoraggianti di Marescotti, presidente di Peacelink, che in un post su Facebook, non si lascia intimorire dal nuovo accordo ma, anzi, cerca di dare speranza a chi, come lui, si prospetta un futuro diverso per la sua città: “Anche se il governo ha firmato questo accordo su Ilva con ArcelorMittal sono sostanzialmente ottimista sul futuro. Le ragioni della nostra lotta per la salute e l’ambiente non saranno sconfitte. Questo accordo è debolissimo e non reggerà. Non dobbiamo essere suggestionati dalla prova di forza dell’avversario. So che è difficile chiedere altri mesi e anni di resistenza. Ma occorre resistere e occorre farlo con intelligenza. Perché le ragioni stanno tutte dalla nostra parte. E solo noi siamo in grado di esprimere quegli ideali che rendono la vita degna di essere vissuta e difesa.”
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