Ringraziamo Rivista Micron, il magazine scientifico edito da ARPA Umbria, per aver concesso la ri-pubblicazione di questo articolo “Giornalismo civico e giornalismo partecipativo: cosa sono e perché” scritto dalla nostra Rosy Battaglia e pubblicato sulla Terza Pagina della rivista e online, lo scorso mese.
Con l’avvento dei social media ognuno di noi può raccontare, fotografare, condividere informazioni. Siamo tutti citizen journalists nel momento in cui narriamo attraverso i social media un fatto pubblico. Il ruolo del giornalista è ancora presente ma in stretto ascolto con le comunità di riferimento, producendo, selezionando e curando notizie in modo accurato e indipendente.

Come rispondere alla
crisi dell’informazione, alla perdita di credibilità dei media? Come
innovare il giornalismo di interesse pubblico, riportandolo ai temi
fondamentali per le comunità come l’ambiente, la salute, il rispetto
della legalità? Una risposta può arrivare dalla collaborazione tra
giornalisti e cittadini, diventati nel tempo sempre più “user generated
content”, alla base di due fenomeni che hanno interessato l’ecosistema
informativo, anche italiano: il citizen journalism o giornalismo partecipativo e il civic journalism o giornalismo civico.
Che, a dispetto dell’“assonanza”, non sono la stessa cosa. Intanto,
proprio nell’epoca degli smartphone e dei social network non si può non
ricordare come un movimento trasversale e internazionale abbia e stia
lavorando, da tempo, alla ricerca di soluzioni per migliorare la qualità
dell’informazione e la partecipazione civica alla vita democratica.
Sperimentazioni nate ancora prima dell’avvento del web 2.0 a partire dai paesi anglosassoni che, per primi, già dagli anni ‘90 si sono interrogati sulla crisi della carta stampata e su come perfezionare la modalità di produrre notizie per coinvolgere nuovamente le persone nella vita pubblica. In America si è così teorizzato il cosiddetto public o civic journalism, con un vero e proprio incubatore di esperimenti di giornalismo civico, il Pew Center of Civic Journalism che ha operato tra 1993 e il 2002, diretto dal premio Pulitzer Jan Schaffer, giornalista che ha poi fondato J-Lab, progetto di sostegno al giornalismo d’innovazione. Usando la definizione di David K. Perry, del Department of Journalism, University of Alabama, autore di The Roots of Civic Journalism, il giornalismo civico è «il tentativo di abbandonare l’idea che i giornalisti e il loro pubblico siano spettatori nei processi politici e sociali».
Più semplicemente, si tratta di un processo di costruzione delle
notizie che vede i giornalisti collaborare insieme a cittadini e
comunità nella raccolta di dati, informazioni, mappe. Una modalità in crowdsourcing,
con la responsabilità finale, per i professionisti dell’informazione,
di rielaborazione, verifica e pubblicazione dei contenuti così prodotti,
da semplici articoli a vere e proprie inchieste. Il giornalista civico
non cerca scoop, non punta alla conflittualità né alla
spettacolarizzazione.
Ma agisce per aiutare le comunità e i cittadini a prendere consapevolezza della complessità dei problemi.
In Italia, questa modalità si è spesso confusa con il citizen journalism o giornalismo partecipativo fatto direttamente dai cittadini che, da semplici lettori o ascoltatori,
si sono via via trasformati in autori dei contenuti messi online a
disposizione di qualsiasi persona che, a sua volta, può contribuire o
commentare. Tutto questo senza la mediazione di professionisti
dell’informazione ma grazie all’utilizzo di blog, social network e
piattaforme partecipative che hanno reso semplice e possibile la
condivisione di contenuti multimediali.
Anche il citizen journalism, però, non è un fenomeno nuovo e non è esclusivamente legato ai nuovi media, come sottolineava già nel 2009 Gennaro Carotenuto nel suo libro “Giornalismo partecipativo. Storia critica dell’informazione al tempo di Internet”. Basti pensare all’uso che ne è stato fatto da parte di progetti di informazione in-dipendente come la storica emittente radiofonica Radio Popolare, nata a Milano nel 1975, che nel tempo si è avvalsa proprio dei cittadini per raccogliere e documentare, in tempo reale, cosa succedeva nei territori. Dobbiamo, invece, al network europeo Agoravox, divenuto poi fondazione, il primo sito europeo di giornalismo partecipativo – nato nel 2005 e con sede in Belgio – con redattori “civici”, cioè cittadini.
Approdato nel nostro paese nel 2008, fino al 2011 ha avuto, non a caso, un direttore come Francesco Piccinini, poi divenuto fondatore e direttore di uno dei siti di informazione online più diffusi in Italia, Fanpage, un progetto di informazione “nativo digitale” che si definisce “indipendente, sociale e partecipativo” e che ha saputo sviluppare al meglio l’interazione mediatica sui social network con i cittadini. Tutto ciò mentre molti media mainstream ancora si interrogavano se inserire, nelle redazioni divise tra “carta stampata” e “online”, figure come il “Social media editor”. Giornalisti, cioè, dedicati alla condivisione e alla cura della pubblicazione online degli articoli e alla moderazione dei commenti. Unica eccezione La Stampa che, per prima, nel 2013 ne ha istituito ufficialmente il ruolo.
Così come è stata, nel 2016, l’unica testata italiana ad avere un “Garante dei lettori”, figura equiparabile a quella del Public Editor, presente in molte testate americane (anche se il New York Times lo ha abolito nel 2017).
Il giornalista, cioè, che ha il compito di sorvegliare che la testata
segua principi giornalistici condivisi come la veridicità di ciò che
viene scritto, l’originalità degli articoli, l’obiettività
nell’esposizione dei fatti, la neutralità e l’assenza di conflitti di
interesse. E di segna are, in articoli rivolti alla comunità di lettori,
violazioni e omissioni rispetto a questi principi.
L’avvento del web spiega poi come, anche nel nostro paese, siano nate piattaforme multimediali, usando la definizione di Luca De Biase, i cosiddetti “Media Civici”, titolo del saggio pubblicato nel 2013, da cui è nata, poi, l’omonima associazione. Definizione coniata sempre nel mondo anglosassone, qualche anno prima, dall’intersezione del concetto di media con quello di cittadinanza. «Media usati per promuovere e amplificare l’impegno civico – scriveva De Biase – dove si producono e scambiano documenti e informazioni, si raccolgono istanze e si prendono decisioni rilevanti per la comunità civile».
Media che, potenzialmente, possono consentire di ridefinire il rapporto tra comunità di cittadini e pubblica amministrazione, purché si attengano ai principi di accuratezza, indipendenza, completezza e legalità. Caratteristiche fondamentali con la crescita del tema degli open data e della partecipazione democratica online. Sempre in Italia, un esempio concreto viene da un progetto di informazione nato dal basso, un’associazione come Peacelink, che è an-che un “media civico”.
Dove la teoria è diventata pratica, con cittadini scientifici sempre più preparati e impegnati nel monitoraggio civico, nell’utilizzo di dati aperti, immagini, video. E nello studio di documenti e atti pubblici.
Sono, semplificando, media civici, la maggior parte dei siti e delle piattaforme creati da ONG e associazioni, da Libera a Legambiente, da Openpolis a Greenpeace.
Occorre sottolineare, però, un passaggio epocale. Come si evince dai casi già esposti, nel giro di qualche decennio, anche nel nostro paese è avvenuta una trasformazione radicale. L’informazione, la sua produzione e distribuzione, non è più appannaggio dei singoli media e dei giornalisti. Come ben ribadiva, nel 2010, Sergio Maistrello: «Le persone non hanno più bisogno a tutti i costi di mediatori. La società in Rete sta imparando a comunicare, a informarsi, a condividere cultura, a commerciare, ad amministrarsi, a divertirsi, a progettare al di là di ogni forma di mediazione conosciuta in precedenza – scriveva nelle prime pagine di un testo di riferimento come “Giornalismo e nuovi media. L’informazione al tempo del citizen journalism”.
Ed è proprio così: la richiesta, la raccolta, la condivisione e la rielaborazione di informazioni e dati di pubblico interesse, come quelli ambientali e sociali, può dare vita a progetti di giornalismo civico e partecipativo. Anche dove meno immagineremmo. Basti pensare che la più importante piattaforma di condivisione e sharing, Ushuaidi, era già nata in Sudafrica, riadattata e utilizzata in tutto il mondo nel 2007. Ushahidi (in Swahili “testimonianza”) nel periodo immediatamente successivo alle contrastate elezioni presidenziali in Kenia del 2007, grazie alla creazione di un sito web raccolse le testimonianze oculari sulle violenze, via e-mail e messaggi di testo, per poi geolocalizzarle su una mappa di Google maps. Una modalità in crowdsourcing, di giornalismo partecipato e partecipativo, che si può estendere e ampliare. Ma cosa si intende, esattamente, per crowdsourcing nell’ambito dell’informazione? La definizione, coniata dal Tow Journalism Center della Columbia University, di New York, nell’omonima guida stilata nel 2015 dice: «giornalismo partecipato è l’atto specifico di invitare un gruppo di persone a partecipare con segnalazioni, come notizie, dati o analisi secondo un input mirato ed aperto, attraverso esperienze personali, documenti o di altri contributi».
Secondo gli esperti americani, il «crowdsourcing permette
alle redazioni di costruire punti di ingresso del pubblico in ogni fase
del processo giornalistico: dalla storia di partenza, alla pre-raccolta
dati, di data mining, alla condivisione di competenze
specialistiche, alla raccolta di esperienze personali e di continuare le
conversazioni oltre il processo editoriale».
Ciò facilita anche nuove alleanze tra le diverse componenti della
società civile e scientifica: università, enti, cittadini e
associazioni. Insieme possono raccogliere informazioni, verificarle
e comunicarle su piattaforme indipendenti. Un esempio di riferimento,
nell’ambito della giustizia ambientale, è stato sicuramente il prodotto
della rete europea Ejolt, “Environmental Justice
Organisations, Liabilities and Trade”. Piattaforma partecipativa di
taglio scientifico e civico, suppor-tata dalla Commissione Europea. Nata
nel 2012, nel nostro paese è stata rielaborata nell’Atlante dei conflitti ambientali,
pubblicato online nel 2015 e a cura del Centro di Documentazione sui
Conflitti Ambientali. E in Italia? «Rispetto a questo mondo
completamente cambiato dalle fondamenta, a questo nuovo sistema
operativo sociale basato sul network, a questi ambienti culturali –
perché di ambienti si tratta, e non di semplici mezzi – il giornalismo
ha davanti una sola possibilità: rimettere al centro i lettori, perché
l’alternativa è l’irrilevanza e il collasso totale della credibilità e
dell’autorevolezza giornalistica (già fortemente indebolita)». Così
diceva Arianna Ciccone, co-fondatrice dell’International Journalism Festival nella sua Lectio all’Università
di Urbino, intitolata “Contro i giornali, per amore del giornalismo”
che analizzava lo stato dell’informazione italiana, ad ottobre 2014.
Da allora non si può non osservare come, anche nel nostro paese,
seppure tra enormi ritardi, in un sistema dell’informazione in crisi e
asfittico e sotto pressione politica ed economica (che ci vede in
posizioni poco onorevoli, 43esimi nella classifica mondiale per la
libertà di stampa) qualche tentativo di rinnovamento e di avvicinamento
ai bisogni dei cittadini è stato fatto. Per rispondere a questo bisogno è
nato nel 2013 il progetto di informazione indipendente Cittadini Reattivi, inchiesta multimediale e crowdmapping ad alto impatto civico e sociale, premiata da Fondazione Ahref.
A metà tra il giornalismo civico e quello partecipativo, divenuta
associazione nel 2015, ha coinvolto le comunità e cittadini che vivono
nelle aree più contaminate dell’Italia, a partire dai Siti di Interesse
Nazionale. Il tutto attraverso l’uso quotidiano dei social network e una
piccola piattaforma di crowdmapping, ora in via di sviluppo
grazie al Dipartimento di Informatica dell’Università di Salerno.
Producendo inchieste partecipate e intraprendendo alcune delle battaglie
nazionali per la trasparenza e il rispetto della legalità.
Come quella per affermare il diritto di accesso alle informazioni in Italia, sia per i cittadini che per i giornalisti. Impegno che, con altre 30 Ong riunite nella campagna Foia4Italy, ha portato a sollecitare l’approvazione, in sede governativa, del decreto legislativo 97/2016 “Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informa-zioni da parte delle pubbliche amministrazioni”. In sintesi, il primo Freedom Information Act italiano, entrato in vigore il 25 maggio 2016. Molte delle case history di giornalismo partecipativo, di comunità e in crowdsourcing, tra cui quella italiana, sono sta-te raccolte nella piattaforma americana Gather, “An Engaged Journalism Collaborative”, progetto dell’Agora Journalism Center, nato nell’Università dell’Oregon con il sostegno della John S. and James L. Knight Foundation e del Democracy Fund.
Siamo ancora lontani da esperienze come quelle che hanno fatto scuola, dai premi Pulitzer come Pro Pubblica, che hanno attuato in modo concreto, nel processo di creazione delle notizie e delle loro inchieste, la modalità partecipativa e in crowdsourcing.
Solo nel 2018 è nato, in Europa, l’Engaged Journalism Accelerator, un programma che offre finanziamenti a fondo perduto per coaching, tutoraggio, risorse ed eventi in grado di aiutare il giornalismo impegnato nel coinvolgimento dei cittadini e delle comunità. Promosso dall’European Journalism Centre (EJC), si pone come obiettivi quello di sostenere la produzione di informazione di qualità, che possa essere in grado di ripristinare la fiducia nei media, di sviluppare nuovi modelli di sostenibilità e indipendenza economica. E di fornire ai cittadini le diverse fonti di informazione, di cui hanno bisogno per prende-re decisioni informate.
Nel network, con Cittadini Reattivi anche il blog collettivo Valigia Blu, uno dei migliori esempi di giornalismo aperto al contributo dei lettori, con una solida comunità che lo sostiene anche economicamente, attraverso il crowdfunding. Alcuni gruppi editoriali, come Gedi-L’Espresso, hanno compreso da tempo l’importanza di ricostruire un rapporto di fiducia con le comunità e i lettori. Aprendosi al dialogo sui social network, in gruppi e in incontri pubblici, proprio all’interno del network dall’Engagement Journalism Accelerator.
Oggi tutti siamo attivi nell’ecosistema dell’informazione, dalla creazione al flusso di news. Motivo per cui sia sul campo, che nelle relazioni sui social network occorre non dimenticarsi che occorre ascolto, umiltà, collaborazione, autenticità, etica per ricostruire un patto di fiducia tra professionisti dell’informazione e cittadini. Il vero giornalismo partecipato parte da qui.
A cura di Rosy Battaglia